venerdì 13 aprile 2012

Il punto di vista precario sulla riforma del mercato del lavoro

di Scioperoprecario.org

Secondo le dichiarazione di Monti e di Fornero: “la riforma punta su quattro leve: 1. rendere più costosi i contratti a termine e precari;  2. premiare la stabilizzazione degli stessi con l’introduzione del cd. “contratto dominante” e punire gli abusi sui contratti più precarizzanti; 3. facilitare i licenziamenti, in particolare per motivi economici, cosicché il contratto dominante non sia percepito dalle imprese come permanente e indissolubile come è accaduto finora con l’art. 18; 4. riformare e allargare gli ammortizzatori sociali. Analizziamo questi quattro punti uno alla volta.

 Flessibilità in entrata e contratto a termine

Il contratto a termine, della durata massima di 36 mesi – conteggiando, a differenza del passato, anche eventuali periodo di lavoro somministrato – viene penalizzato con un’aliquota aggiuntiva dell’1,4%, che concorrerà a finanziare la nuova indennità di disoccupazione Aspi (vedi dopo). Non è più obbligatorio, però, giustificare il motivo del suo utilizzo: di fatto, viene liberalizzato. Tale aliquota, pagata formalmente dall’impresa (ma che può essere scaricata sul dipendente, a seconda del potere contrattuale esistente), può essere parzialmente recuperata se il contratto a termine si trasforma in stabile. Il contratto di inserimento viene cancellato (verrà sostituito dall’apprendistato nell’ambito del contratto dominante (vedi dopo). Nel part-time, ma solo a certe condizioni, possono essere ridotte le clausole elastiche sull’orario d’impiego. Sulle collaborazioni a progetto, occorre una definizione più stringente del “progetto”, pena la trasformazione del contratto a progetto a tempo indeterminato (dietro, però, denuncia del lavoratore, eventualità difficilmente praticabile, vista l’elevata ricattabilità dei collaboratori). Nella realtà, poco o nulla cambia. Le diverse tipologie precarie rimangono tali e quali. Vengono semplicemente aggiunte alcuni vincoli, facilmente raggirabili, e viene aumentata la contribuzione sociale sul solo contratto a termine (quelli tra i contratti precari che offrono più garanzie e diritti) con il probabile effetto, da un lato, di una loro trasformazione in altri contratti atipici meno costosi e, dall’altro, di riversare sui salari l’aumento contributivo.

 Il contratto dominante e abuso dei contratti precari
Il contratto “dominante” dovrà essere quello a tempo indeterminato, che inizia con l’apprendistato, sulla base della riforma di questa tipologia contrattuale effettuata da Sacconi nel precedente governo (Dl. 167, 14 settembre 2011). In questa riforma, si definiscono quattro livelli di apprendistato che coprono praticamente tutte le qualifiche, dall’operaio di mestiere, alle qualifiche professionali sino alla alta ricerca e formazione. Con il nuovo governo Monti, nella legge di stabilità 2012, sono state introdotte alcune novità che riguardano sgravi contributivi e formazione, pari sino al 100% a favore del datore di lavoro. Si tratta, quindi, di un contratto assai favorevole per le imprese. L’apprendistato avrà una durata minima di 6 mesi e massima di tre anni. Ovviamente non è prevista la conversione automatica del contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato. Al riguardo, vigono le nuove disposizione sulla libertà di licenziamento individuale o la possibilità del non-rinnovo, una volta terminato il periodo stabilito. Il DdL sancisce invece i criteri per definire il numero massimo l’art. 5, infatti, afferma che “l’assunzione di nuovi apprendisti è collegata alla percentuale di stabilizzazioni effettuate nell’ultimo triennio (50%) con l’esclusione dal computo della citata percentuale dei rapporti cessati durante il periodo di prova, per dimissioni o per licenziamento per giusta causa”. Per il primo triennio di applicazione della riforma, il rapporto in questione è fissato nella misura del 30%. Di conseguenza, viene elevato il rapporto tra apprendisti e lavoratori qualificati dall’attuale 1/1 a 3/2. Se si esclude l’obbligo per le imprese di garantire un preciso obbligo formativo (sappiamo già come ciò avverrà in Italia), di fatto il contratto d’apprendistato andrà probabilmente a sostituire i contratti a termine, risultando particolarmente convenienti per le imprese. Non è chiaro, infine, se vi saranno modifiche nel limite di età (al momento attuale, secondo la riforma Sacconi, l’apprendistato può riguardare solo i giovani tra 16 e i 29 anni). In conclusione, di fatto, abbiamo l’introduzione di un nuovo contratto, che si sostituisce al solo contratto di inserimento e non abroga nessuno dei contratti precari più in uso (part-time, collaborazione, somministrazione, tirocinio formativo, ecc.), ma semplicemente vi si aggiunge. Il grado di flessibilità in entrata dunque non subisce sostanziali variazioni al quadro giuridico già in essere.
Grande enfasi sui giornali è stata data alla lotta contro l’abuso dei contratti più precarizzanti. L’attenzione del governo si è particolarmente concentrata sulle Partite Iva. Per disincentivare l’uso delle partite Iva fittizie, la riforma prevede la partita Iva sia trasformata in prestazione subordinata se si dimostra che il rapporto di lavoro supera i 6 mesi all’anno e vale oltre il 75% dei ricavi del lavoratore. La norma si applicherà da subito per i nuovi contratti, mentre per quelli già in essere bisognerà aspettare un anno. Sono escluse le partite Iva iscritto ad un Albo Professionale (notai, avvocati, architetti, giornalisti, ecc.). Inoltre viene progressivamente aumentata l’aliquota contributiva per chi è iscritto alla gestione separata Inps (ma non quella delle altre case previdenziali semi-private o semi-pubbliche) al 28% nel 2013 per giungere  al 33% nel 2018. SI tratta di misure molto discutibili, in quanto non viene fatta nessuna distinzione (a parte la corporazione dei cd. liberi professionisti) e si colpisce indiscriminatamente nel calderone del lavoro autonomo più o meno eterodiretto. Sarebbe stato sicuramente più saggio dare la possibilità di scelta al lavoratore con Partita Iva se ritenere la sua prestazione subordinata o meno, mentre risulta del tutto vessatorio l’aumento della contribuzione previdenziale, che, essendo tutta a carico del lavoratore (a differenza del contratto di subordinazione), andrà sicuramente a incidere negativamente sulla sua remunerazione.

Flessibilità in uscita e licenziamenti individuali

Se sui due punti finora trattati, le dichiarazioni ottimistiche del governo non sembrano collimare con la realtà dei provvedimenti adottati, occorre riconoscere che sul tema della flessibilità in uscita e dei licenziamenti individuali le dichiarazioni prima di Fornero e poi di Monti (in risposta alle critiche di Confindustria) sono invece oneste. L’art. 18 viene completamente stravolto grazie al fatto che il licenziamento senza giusta causa viene spacchettato in due: il licenziamento discriminatorio con obbligo di reintegro (difficilmente comprovabile e dimostrabile in sede giudiziaria, quindi di fatto con reintegro inapplicabile), comunque valido solo per le imprese con più di 15 addetti (a differenza di quanto contenuto nella prima stesura) e il licenziamento economico, per il quale il giudice può chiedere il reintegro nel caso sia “manifesta la sua totale insussistenza”. La variazione rispetto alla prima versione (che prevedeva solo l’indennizzo monetario) è del tutto formale e non sostanziale, dato che spetterà comunque al lavoratore , davanti al giudice (checché se ne legga sui giornali), dimostrare l’esistenza dell’insussistenza del licenziamento per motivi economici. Tanto è vero che Monti si è affrettato a confermare che la possibilità per il reintegro per i licenziamenti economici “avverrà in presenza di fattispecie molto estreme e improbabili”. Appare quindi del tutto strumentale la polemica della Confindustria nei confronti del governo, probabilmente finalizzata ad altri obiettivi (tra i quali attirare il consenso della Camusso, secondo il classico principio: i provvedimenti invisi ai padroni, sono positivi per i lavoratori). Appare, infatti, del tutto fuori luogo la contentezza dei sindacati, che sulla difesa dell’art. 18 avevamo promesso l’erezione di barricate. In particolare fanno specie i tentennamenti della Cgil, a dimostrazione di come le forme novecentesche della rappresentanza sindacale siano del tutto inadeguate alle trasformazioni oggi in atto.
Come ciliegina della torta, occorre, infine, ricordare che, rispetto alla prima formulazione, è stato ridotto l’indennizzo monetario nel caso di licenziamento: non più una somma compresa tra i 15 e i 27 mesi, ma solo tra le 12 e le 24 mensilità. Della serie: cornuti e mazziati.

 Riforma degli ammortizzatori sociali
L’ultimo punto riguarda gli interventi sugli ammortizzatori sociali. Qui si va dalla padella alla brace. La riforma si muove in un’unica direzione: quegli ammortizzatori sociali che sono a carico del bilancio dello Stato, con l’ovvio obiettivo di fare cassa: indennità di disoccupazione e di mobilità e la Cassa Integrazione Straordinaria (dal 2014) saranno abolite a favore dell’introduzione dell’Assicurazione Sociale per l’Impiego (Aspi), che entrerà a regime ben nel 2017 e che verrà finanziata con i contributi sociali (in particolare con l’aumento dell’aliquota contributiva dell’1,4% a carico dei contratti a termine). Rimarranno in vigore, sino al 2017, la Cassa Integrazione Ordinaria (già oggi a carico della contribuzione sociale) e la Cassa in deroga, finché saranno esigibili i finanziamenti stanziati a livello europeo e oggi utilizzate dalle regioni (e che il governo si limita d auspicare che diventino strutturali). La nuova assicurazione sociale potrà essere usufruita dai lavoratori dipendenti (quindi non i parasubordinati e gli “autonomi”), dagli apprendisti e dagli artisti, purché siano stati garantiti due anni di anzianità assicurativa e 52 settimane di lavoro nell’ultimo biennio (art. 23). Rimangono così inalterati quei parametri di accesso già oggi in vigore per il sussidio di disoccupazione  e che taglia fuori da qualsiasi forma di sostegno al reddito la maggior parte dei precari. Sarà pari al 75% della retribuzione fino a1.150 euro e al 25% oltre questa soglia, per un tetto massimo, comunque, di 1119 euro lordi al mese. La durata dell’Aspi viene estesa dagli attuali 8 mesi (12 per gli over 50) a 12 mesi (18 per gli over 55), ma sarà a scalare con una una riduzione nella misura del 15% dopo i primi sei mesi di fruizione e di un ulteriore 15% dopo il dodicesimo mese di fruizione (art. 24). Per rendere più digeribile questa pillola amara, nel periodo di transazione, è prevista una mini-Aspi, applicabile ai giovani lavoratori, con parametri di accesso più favorevoli: sono infatti necessarie almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi. L’indennità verrà calcolata in maniera analoga a quella prevista per l’Aspi. La durata massima dell’istituto sarà però pari alla metà delle settimane di contribuzione negli ultimi 12 mesi, ultimi 12 mesi, detratti i periodi di indennità eventualmente fruiti nel periodo (art. 28). Rimangono però esclusi le varie forme di collaborazioni e altre tipologie precarie di lavoro.
Se analizziamo le misure principali della riforma del lavoro, risulta evidente come il tentativo sia quello di chiudere il cerchio della precarizzazione del lavoro: gli interventi di maggior regolazione sulla flessibilità in entrata intervengono su contratti di lavoro già oggi scarsamente usati. Colpisce l’enfasi sull’apprendistato senza che neanche una parola venga detta sull’uso sempre più pervasivo degli stage o tirocini formativi, ancora oggi giustificati da esigenze di formazione (sui quali, il Governo si impegna ad un intervento ad hoc entro sei mesi dall’approvazione definitiva della riforma: staremo a vedere). Con la deregulation dei licenziamenti individuali, non solo si corre il rischio non tanto di favorire l’avvio di licenziamenti di massa (comunque possibili), ma di avviare processi selettivi di licenziamento, aumentando il grado di potenziale minaccia e di ricatto nel controllo della forza-lavoro, soprattutto quella meno docile: licenziarne uno, per educarne 100. Infine, viene ancora perseguita quella politica dei due tempi che ha sempre caratterizzato i diversi interventi sul mercato del lavoro in Italia e in Europa: il primo tempo della precarizzazione, da accettare e subire in nome della competitività economica per poi riuscire a ottenere in un secondo tempo (che mai arriva) quelle risorse destinare a garantire un minimo di sicurezza sociale. Negli anni ’80, l’esigenza di base era favorire la crescita dell’occupazione, ai tempi di Treu, la competitività economica era dettata dall’esigenza di entrare in Europa, ora l’emergenza è quella della crisi economica. Molto enfasi è stata sprecata nel nome della ”flexisecurity”, parola magica che nella retorica del governo dovrebbe favorire gli investimenti stranieri in Italia come motore della ripresa economica (ammettendo implicitamente che la classe imprenditoriale nazionale è incapace). Sappiamo già come andrà a finire: così come la prima fase della precarizzazione non ha favorito la crescita dell’occupazione, men che meno quella giovanile, grazie all’effetto sostituzione tra lavoratori precari e lavoratori stabili (giocando mass-mediaticamente sulla falsa contrapposizione tra insider e outsider), così anche oggi il complemento del processo di precarizzazione e le poche future briciole promesse come ammortizzatori sociali non saranno in grado di innescare un processo virtuoso per l’economia italiana. Da questo punto di vista, se veramente si vuole ottenere una fuoriuscita dalla crisi economica, sarebbe di gran lunga più saggio operare in modo inverso: prima garantire sicurezza sociale, come condizione necessaria per stabilizzare i redditi, ridurre il dumping sociale, favorire l’accesso a quei servizi di base e a invertire la concentrazione della distribuzione del reddito, per favorire congiuntamente la crescita della produttività sociale e, al limite, solo successivamente, intervenire, se necessario, per una razionalizzazione del mercato del lavoro e produttivo, fondato non sulla coercizione al lavoro ma sulla libertà di scelta.
I provvedimenti di Monti-Fornero si collocano dunque in un trend che ben conosciamo e i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti. Le reazioni dei sindacati concertativi (Cgil compresa) sono anche quelle scontate, dimostrando un grado di penosità che la dice lunga sulla loro totale inutilità. A differenza delle altre volte, stavolta non sono stati neanche in grado di portare a casa l’idea della concertazione come metodo di promulgazione legislativa e il loro riconoscimento come parti sociali. Non è un caso che Monti ha sempre voluto ribadire che il dialogo avviato con le parti sociali ha assunto stavolta le forme della consultazione: ovvero di una prassi che avrebbe comunque portato ad una decisione governativa unilaterale, a prescindere dagli esiti della consultazione stessa. Quindi, di fatto, Cgil, Cisl e Uil hanno permesso solo un ulteriore slittamento verso il basso dei diritti e delle condizioni di lavoro e vita dei lavoratori/trici italiani. Ed è soprattutto per questo che la Cgil continua a blaterare di un’improbabile mobilitazione, comunque subordinata alle esigenze politiche dettate anche dalla partecipazione del PD ad una maggioranza bulgara di governo, che sta sempre più mostrando la sua essenza politica (altro che governo tecnico), riuscendo ad arrivare là dove Berlusconi non osava neanche avventurarsi.

I sindacati di base, non concertativi, e le forze antagoniste della sinistra extra-parlamentare (quelle che hanno promosso, per intenderci, la manifestazione contro Monti del 31 marzo scorso) denunceranno l’attacco all’art. 18, con il rischio di non rendersi conto che il vero attacco non è al lavoro stabile, ma alla condizione precaria. Non essendo in grado, se non parzialmente, di portare proposte alternative adeguate ai processi di valorizzazione attuali, il loro agire politico rischia di essere connotato da un velleitarismo inconcludente. E poiché non si intravvedono all’orizzonte, se non in forma ancora troppo embrionale, forme di autorganizzazione precaria, in grado di sviluppare e agire non solo nuovi strumenti del conflitto e nuove metodologie di lotta in modo pratico e realistico (vedi proposta di sciopero precario) ma anche di saper diffondere obiettivi realizzabili, magari già ad un buon livello di elaborazione teorica e pratica, ma difficili da sedimentarsi all’interno di una condizione precaria ancora troppo ricattabile e poco consapevole, è facile prevedere che tale riforma verrà approvata senza che grandi ostacoli. Il punto di vista di precario è condizione necessaria ma non sufficiente a scatenare la rabbia precaria, indirizzandola verso processi costituenti in grado di imporre nuovi rapporti di forza.
Molta acqua dovrà passare ancora sotto i ponti e la vecchia/nuova talpa dovrà ancora scavare